The Young Pope di Paolo Sorrentino
Cosa succederebbe se una persona normale diventasse Papa, una persona normale che non ha dovuto affrontare l’epistemologia religiosa e la credenza progressiva che sarebbe lecito aspettarsi da chi giunge al soglio pontificio?
The Young Pope di Sorrentino non è diventato Papa per qualche espediente narrativo come un Minion qualunque diventava regina d’Inghilterra, ha effettivamente scalato tutte le gerarchie ecclesiastiche, ma la sua libertà di pensiero è rimasta intatta e pertanto simile alla maggior parte delle persone: non crede in Dio, ritiene che ci si debba confrontare su argomenti quali la contraccezione, l’aborto e l’eutanasia, e il potere acquisito lo fa sentire praticamente una rockstar.
La serie girata per Sky e HBO permette a Sorrentino di sprigionare tutta la sua potenza visiva e intellettuale, tanto da far pensare che, liberato dalla gabbia di dover raccontare una storia, sia la serialità la sua dimensione ideale, potersi abbandonare alle eteronomie della postmodernità, dalla riflessione sui segni evidenti dell’esistenza di Dio fino all’analisi della costruzione del mito attraverso la scomparsa dei segni delle star (cosa accomuna Salinger, Malick, i Daft Punk? La loro invisibilità).
L’inizio dimostra la capacità di Sorrentino di portare alla luce l’inconscio collettivo: sebbene senza figli, il Papa è da considerarsi il padre di tutti, anche per le politiche che la Chiesa propugna, per cui da una piramide di neonati che ostruisce San Marco (e Venezia è dove risiede il vulnus originario del giovane Papa, la ragione stessa per cui è diventato Papa) emerge Lenny Belardo, futuro Pio XIII, il giorno della sua ascesa al trono di Pietro.
Contrappunto/contrapposto al giovane Pio XIII interpretato da Jude Law, all’apice della sua potenza espressiva, c'è il segretario di Stato Cardinale Voiello, un Silvio Orlando che sintetizza il groviglio di carità e oscurità che rappresenta la Chiesa, con tanto di passioni terrene quale il tifo per il Napoli (e per quanto ci aveva puntato in fase di sceneggiatura Sorrentino ci deve essere davvero rimasto davvero male per il passaggio di Higuain alla Juventus).
Il potere è l’ambito in cui dibattono i due, il potere definisce tutto e permette anche di creare Dio: chi non ha il dono della fede non può crearla, ma può indurre gli altri ad averla, attraversare il lunghissimo fiume della solitudine dell’uomo per trovare un Dio da regalare agli uomini; l’amore è assente, come in tutti i film di Sorrentino, e l’unica forma di amore è quello materno, surrogato da Suor Mary (una cadente Diane Keaton), che accolse Lenny quando i genitori lo abbandonarono per andare a fare gli hippies a Venezia.
In attesa di scoprire cosa è stato dei suoi genitori, Lenny ci regala un giovane Papa affascinante, addolorato e spietato, ma soprattutto ironico: si ride davvero molto, aldilà dei soliti aforismi sorrentiniani (“è facile citare il passato perché vi si può trovare tutto e il contrario di tutto, il presente invece è una feritoia sottile attraverso cui possono guardare solo due occhi per volta, i miei”), attraverso gag non verbali rese fantastiche dal tocco british di Jude Law.
Un'opera perfetta in tutti i suoi aspetti (la fotografia di Luca Bigazzi, le musiche di Lele Marchitelli), tanto da far sperare che Sorrrentino prosegua in questo discorso aperto con le serie.
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