the founder
La premessa narrativa di The Founder è risaputa e non originalissima: la vicenda di come Ray Croc abbia acquisito e trasformato un ristorantino di due fratelli nella multinazionale per eccellenza, sullo sfondo dell'America degli anni '50. Anche il film in sé si presentava come un prodotto abbastanza canonico, un biopic impreziosito da Michael Keaton che pare vivere una seconda giovinezza artistica dopo il successo di Birdman: L'Uomo Uccello. Il buon Hancock veniva da una prova costumata, innocua o al massimo gradevole. Eppure, e sono consapevole di stare droppando una bomba di non poco conto, The Founder si trova ad essere, probabilmente oltre i suoi stessi meriti artistici e tecnici, una delle più fedeli rappresentazioni cinematografiche di quel protagonista del calcolo economico-razionale che chiamiamo capitalista. Se ci si pensa un attimo, l'economia di mercato è un tema che difficilmente viene affrontato dal cinema, che ha preferito raccontarne i suoi effetti alienanti (Modern times), le sperequazioni che produce e su cui si fonda (A corner in wheat), le ossessioni che riesce ad incanalare e esacerbare (There will be blood). Ma le specificità di quello che potrei chiamare, se fossimo ad un seminario di zecche e indossassi un maglione color vinaccia tutto sformato, 'Homo oeconomicus' sono quasi sempre rimaste una zona grigia per la narrazione cinematografica. Zona grigia che The Founder invece prova ad esplorare con il protagonista interpretato da Keaton, che all'inizio ci viene presentato come il solito sfigato che ci prova un sacco vs l'indifferenza generale. Sembrerebbe il punto di partenza per la classica struttura: la svolta, il turning point a metà film, le ulteriori difficoltà sormontate a 3/4, il successo finale, il riconoscimento, la validazione sociale. Invece questo ordine generale, che è quello di qualsiasi storia, dai drammi sportivi alle commedie romantiche, nel film di Hancock è ignorato: certo, la vicenda è più o meno quella, ma si pone fuori asse rispetto alla narrazione principale. Keaton incontra subito i fratelli McDonald (coppia di collaudati caratteristi), che gestiscono il loro ben avviato ristorante con un metodo automatizzato che consente tuttavia di mantenere un certo livello di qualità. È la loro storia, di difficoltà sormontate da entusiasmo & coraggio, ad essere autenticamente cinematografica. Croc ascolta, prende nota e cerca di riprodurre il modello dei fratellis su più ampia scala. Sullo sfondo si delinea il tema dell'alta borghesia wasp da country club che si muove come una sorta di aristocrazia, impastoiata da un approccio non abbastanza aggressivo e affamato, e destinata per questo a rimanere superata dall’avvicendarsi dagli eventi. In tutta la vicenda il protagonista non ha un guizzo degno di nota: lo stesso escamotage finale non è una sua idea, ma di un tizio che incontra per caso in banca. Croc si limita ad osservare, ad ammirare la visione di altri, alla maniera del cuculo. L’overacting controllato di Keaton e il suo ghigno vagamente conigliesco ci restituiscono un personaggio non pervenuto, dominato da una cieca perseveranza, che non si fa portatore di alcuna istanza (nemmeno in negativo, a differenza del petroliere di There will be blood), fatta eccezione per il desiderio di vampirizzare l’autenticità, il calore delle passioni dei romantici entrepreneur McDonald. Al netto di difetti anche consistenti - il film risulta estremamente parlato e poco visuale - il merito di The Founder è di mantenere un punto di vista cauto, attento a non scadere mai nella denuncia, ma che consolida invece l'ambiguità di fondo tra l'ammirazione per il successo del self made man, e la perplessità di fronte alla sua vaga consistenza morale. È una lingua sempre equilibrata, che ci descrive il l'essenza stessa del capitalismo: il paradosso di imperi giganteschi costruiti da uomini minuscoli.