Pyongyang international film festival - Andare al cinema in Corea del Nord
Pyongyang, per chi non lo sapesse, è in Nord Korea, o come direbbe un’amica Bad Korea, ovvero il luogo oppresso dalla dittatura della famiglia dalla dinastia di Kim Il-sun (il “Presidente Eterno o “Gino Bramieri Cinese”), suo figlio Kim Jung-il (il “Caro Leader” o il “Cattivo di Team America”) e suo nipote Kim Jong-un, (il “Brillante Compagno” o Cicciobello). Il “Mastro di Chiavi” e il “Guardio di Porta” sono rispettivamente Ministro degli Interni e presentatore del Festivalbar. Lo sapevate che Ferdinando Baldi ha girato un action negli anni ’80 in Nord Korea con Mark Gregory (I Guerrieri e Fuga dal Bronx)? Si chiama Tan Zen. Le coproduzioni italiane si sono spinte fino a lì. Entrare in Nord Korea è abbastanza complicato. Il visto verrà consegnato all’ultimo momento e si potrà utilizzare solo la linea aerea nazionale, Air Koryo (unica con una sola stessa dagli aeroporti internazionali, in pratica l’aereo di Pappa e Ciccia) o un treno, solo da Pechino. Che culo, io ci vivo a Pechino! Se vivevo a Miami mi toccava rompermi le scatole a Cuba. Il Nord Korea, o DPRK, è una dittatura socialista ereditaria, e tutta l’esistenza del luogo ruota intorno alle figure dei leader citati sopra. Ogni monumento, angolo di strada e centro sociale, educativo e culturale è tale in venerazione di queste figure il cui peso all’interno della società koreana può essere paragonato solo a quello dei Faraoni. Una volta arrivato il DPRK, il turista o delegato o ospite straniero incontrerà la sua guida. E qui veniamo al mio amico Yun Chol Lim, che chiamerò Charlie con l’inglesizzazione del suo nome. Charlie è un traduttore di libri e testi dall’inglese, 33enne, sposato con una bambina. Charlie è la mia guida, e dal momento in cui passo il board all’aeroporto e mi si avvicina questo piccoletto e mi chiede “ehmmm….uhmmmm….are you…italian?“, non mi lascerà mai più. La guida è ufficialmente una persona che ti accompagna a visitare in Paese, una guida turistica. De facto è uno che sta lì a controllare cosa fai e a farti fare tutto quello che dice “Il Comitato”. Loro ti dicono dove andare, loro ti dicono se puoi fare foto, che atteggiamento devi avere, dove puoi andare se non sei in albergo. Ogni ospite del festival ha la propria guida, e dopo veramente poco tempo si comincia a parlare della propria guida come una naturale estensione del proprio colon traverso, e si favoleggia sulle proprie caratteristiche come di un personaggio di Dungeons & Dragons. Ovviamente, con un’opportunità del genere tra le mie mani, non potevo che trasformare la mia guida, Yun Chol Lim, in arte Charlie, in una leggenda.
Arrivati a destinazione, nell’albergo dove sarai piacevolmente prigioniero (tipo Le Conseguenze dell’Amore) ti verrà preso il passaporto e la carta di imbarco di ritorno, “per precauzione”, e non ti verrà restituito fino a pochi secondi prima di passare il board. L’albergo è il posto dove si passa più tempo in assoluto, e sono adibiti per sopravvivere al tedio pazzesco che una situazione del genere può provocare. Per fortuna la condizione festivaliera implica dei privilegi, anche se non si è capito chi li va a vedere sti film, e l’intenzione di creare un mercato e un evento di propaganda, attivo da 14 edizioni ogni 2 anni, porta diversi ospiti più o meno all’interno dell’universo cinematografico, da varie parti del mondo, Ci sono anche i miei connazionali! I cinesi! E non posso fare a meno di notare che grazie al fiorire economico, stanno cambiando il look, da quartieri spagnoli napoletani a borgata romana medio-alta, da un film di Garrone a uno di Brizzi, in pratica. Quando Charlie sa che lavoro nel cinema mi chiede “mmmm…ehmmm. Do you know…mmm….Tom Cruise?“. Gli rispondo di sì e lui mi dice che gli era piaciuto molto in Rambo. Giuro. Cerco di far vedere a Charlie il trailer di Eva Braun. La prima volta distoglie lo sguardo per via delle nudità, ma dopo che la nostra amicizia si starà iniziando a cementare sarà lui a chiedere di vedere il trailer, per poi chiedermi come mai il film è così corto. “Trailer? What’s trailer?“.Dobbiamo vestirci bene per andare alla cerimonia di apertura, introdotta da un concert di Arirang, la musica folk nord koreana suonata con una specie di arpa e delle specie di tamburi. Balletto, Pippi Baudi e Raffaelle Carrà, tutte le donne vestite da uovo di Pasqua, e proiezione dell’interessante film britannico Fast Girls.
La selezione è abbastanza random. Io stesso ho mandato dei film che non sono mai arrivati ma mi hanno detto che mi avevano selezionato delle cose con cui non ho a che fare minimamente. Aggiornerò la mia pagina imdb a questo punto. Nel programma che Charlie mi consegna c’è il nostro destino, ovvero quello che DOBBIAMO fare ogni giorno, a costo della morte cerebrale, e il programma dei film che tanto non posso vedere perchè DEVO andare a vedere i monumenti in pullman con Charlie. Un po’ di titoli random: Vasilina dalla Russia, Fallen City dalla Cina, Krrish dall’India (l’X Men indiano), Giant Bear dalla Danimarca, Sunflower Seed dal Belgio, Big Hit dalla Grecia, Mistery Road dall’Australia. Qualcuno mi fa notare che sul catagolo i crediti sono messi completamente random, ma non biasimo più di tanto visto che in Nord Korea non c’è internet. E’ possibile collegarsi per mandare una mail in postazioni strategiche in albergo da un indirizzo che hanno loro, ma nulla più. Di fatto, entrando in Pyongyang, si è completamente, totalmente isolati. Il gruppo divertente e simpatico con cui abbiamo legato bene gira la città per le varie tappe del tour, anche se presto, con l’avvento della stanchezza, capiamo che non siamo ospiti ma prigionieri. Il giro turistico giornaliero implica una scaletta pienissima. Praticamente tutto quello che visiti è per esaltare i tre marmittoni (soprattutto i primi due) o i trionfi nord koreani contro il nemico, un’ossessione militare che si nota ovunque. La statua gigante di Gino Bramieri e suo figlio, e ti devi inchinare o portare i fiori. Charlie mi dice quanto e per quanto tempo devo inchinarmi, dato che non sono capace, ma io riesco a farlo ridere durante il momento del saluto, facendogli rischiare la decapitazione. E’ una grande vittoria, e solo la prima. Ho seriamente intenzione di distruggere quest’uomo dalle fondamenta, e farlo rinascere come una nuova specie. Si visita la mangiatoia dove è nato Kim Il Sun, Mangyongdae, dove c’è il parco, il posso per bere l’acqua, le zanzare… Le parole “.…mmm…the president Kim Il Sun and the president Kim Jong-il…” sono la cosa che sentirò in assoluto più spesso in questi giorni, come un mantra che ti entra nella testa, e posso immaginare cosa voglia dire sentirle per 33 anni. Guardo Charlie e sorrido. Lui risponde interrogativo. Il Victorious Fatherland Liberation War Museum è il tripudio della propaganda. Si entra e c’è una statua di cera di uno dei tre marmittoni, credo l’ultimo. Ci metto un po’ a capire che Charlie mi sta dicendo che si tratta di una “coloured wax statue”, perchè dice “clourouaschstaciu“. Poi mi chiede “Mmm… do youuu…. have in Italy….clourousaschstaciu?“- “What do you mean?“. “Do you have it? This is the first clourouaschstaciu in the world“. Chiedo a quando risale. Lui risponde “un anno fa.”. Ora mi è tutto più chiaro. Il Museo è una specie di Madame Tussaud a tema guerra, distruzione e devastazione. Fatto bene, per carità, ma ogni volta che mi si parla di queste grandi imprese in cui sono crepate migliaia di persone osservo con Charlie “many people died” e lui “mmm…not people…soldiers“. Un monumento alla morte che sfocia in una sala rotante in cui effetti speciali ti immergono all’interno della zona di guerra, in onore dei grandi soldati Nord Koreani che hanno salvato la nazione alla faccia degli americani che hanno “infastidito il Paese sbagliato”. C’è un vecchietto alla fine del tour, è vestito con la divisa militare. Charlie dice che è un eroe di guerra e che lavora lì. A vederlo sembra più parte del mobilio. Mi viene in mente Caterpillar del compianto maestro Koji Wakamatsu e il suo patetico Dio della Guerra senza arti. Devo stare attento con le mie esternazione poichè hai l’impressione ci siano microspie ovunque. Sono abituato con la Cina, ma non posso uscire dalla camera per un quarto d’ora che qualcuno entra e riordina tutto. O fruga… Oppure se faccio qualcosa fuori programma, mi ritrovo sempre qualcuno dietro con una scusa. Mi porge una bottiglia d’acqua che non ho chiesto, mi saluta. Mi sembra di essere nel secondo tempo di Eyes Wide Shut. Il film con Silvester Stallone. Guardo Charlie e dico “fidelio”. Lui sorride. Questi luoghi sono tuttavia interessanti, ma è quando ti portano a visitare il parco acquatico che comincia a pensare che vogliano tenerti impegnato a tutti i costi. Charlie mi chiede se in Italia ci siano parchi acquatici. Gli rispondo che c’è il mare.
Pyongyang, per farsi un’idea, sembra una città che viene fuori dalla fantascienza britannica anni ’70. Minimalista e futuristica. Grattacieli e palazzi asettici, palazzi colorati con tinte opache e soprattutto nessuna insegna. Il bombing costante di simboli commerciali e segnali qui non esiste, e fa un certo effetto. L’unico concetto è il simbolo della nazione, e ogni individuo deve portare sul petto la spilletta con il volto del Presidente, ma nessuno straniero è autorizzato ad acquistare o possedere quella spilletta. 1984 qui, è realtà. Il Ryongyang Hotel prova la passione per la Fantascienza di Kim Sung Il, e ha una storia interessante. Per la solita megalomania asiatica per cui devono costruire dei monumenti uguali agli altri ma più grandi (a Pyongyang hanno l’Arc du Triomph ma più largo), la Piramidona doveva essere l’hotel più alto del mondo. Peccato che i lavori si fermarono per buoni 15 anni per una crisi economica disastrosa, e il vanto del Paese divenne invece un simbolo perenne di disfatta. Mi racconta un ospite tedesco una aneddoto interessante che dipinge l’approccio della popolazione ai problemi del Paese. Anni prima aveva chiesto alla sua guida cosa fosse quell’edificio che indicava. La guida continuava a rispondere che non capiva di che edificio si trattasse finché lui non ha desistito. Quando l’ho chiesto a Charlie mi ha risposto “un albergo”.
Dopo qualche giorno di prigionia in albergo cominci a sclerare, e con gli altri ospiti si comincia a cospirare alla maniera di Prison Break. Come possiamo scappare? Ci viene concesso di andare una sera al ristorante italiano (per modo di dire) e giapponese (molto per modo di dire), sempre accompagnati dalle proprie guide. Qui nasce lo pseudonimo di Yun Chol Lim come Charlie, e presto, grazie anche all’Italian night promossa dal sottoscritto e dalla regista kwaitiana Kolhoud Al-Najjar, di cui sentiremo presto parlare ai piani alti, Charlie viene messo a capo delle guide del nostro Gruppo, e il suo nome riecheggia ogni volta che c’è qualche problema o necessità. Potrebbe odiarmi per questo, e forse qualche volta lo ha fatto, ma sento chiaramente che quest’uomo sta cominciando ad amarmi. Diventa una realtà quando mi rivela che alle donne koreane non piace essere baciate. Non intende essere baciate “lì”, che già sarebbe fantascienza. Non piace proprio essere baciate. Kolhoud, da femminista convinta in un luogo come il Medio Oriente, mi fa notare i colori che le donne portano sopra. Grigio e blu scuro. Ogni segnale sessuale viene annientato e per legge loro non partecipano alla vita sociale. E dire che si vedono molte più belle ragazze che in Cina. Distruggiamo moralmente Charlie con domande pericolosamente imbarazzanti, che metterebbero in difficoltà un navigato sciupafemmine, figurarsi il prototipo di una società repressiva. Arriviamo a un accordo. Io non bacerò Charlie ma lui bacerà sua moglie una volta che io sarò andato via. Mi mostra la foto di lei. E’ molto carina e giovane, e spero un giorno felice.
Finalmente andiamo a visitare un luogo in cui si idolatra qualcuno che se lo merita, un monastero buddista. Scambio due parole con Buddha. C’è veramente bisogno di lui qui. Il posto è grandissimo. Charlie mi chiede se ci siano luoghi sacri in Italia. Gli chiedo se ha mai sentito parlare del Vaticano. Ci portano per legge del contrappasso a vedere un film di propaganda, credo degli anni 60, Flower Girl, un dramma devastante sulle peripezie orribili di una povera ragazzina durante l’occupazione dei soliti giapponesi. Un film sul Male e propaganda di Odio a gogo mascherato da drammone. Attrice protagonista, oggi vecchia babbiona, presente in sala. Mi viene da pensare, mentre lo vedo, che come concetto non è poi così lontano da Morituris, solo che a questa gliene fanno di molto peggio rispetto a Desi e Vale.
Piove a Pyongyang. Male, perchè, contro ogni mia normale abitudine, la sera prima ho bevuto mezzo bicchiere di più e l’hangover si unisce a metereopatia proprio nel giorno in cui dobbiamo andare a vedere “loro”. Dobbiamo andare nel posto dove “ci sono i due morti“, come dice qualcuno. Il Mausoleo. Piove. E per un qualche motivo mi sento triste. Chiedo a Charlie se sa chi è Napoleone. Lo sa. E gli dico che nel Mausoleo di Napoleone Bonaparte c’è un arco molto basso per entrare nella stanza della tomba, e sei costretto a inchinarti. “Perchè è l’unica maniera leggittima per costringere qualcuno ad inchinarsi”. Forse dopo questi discorsi mi strapperanno il passaporto. Il percorso verso i due cadaveri è solenne. Silenzioso. Il tuo atteggiamento viene osservato. Devi essere rispettoso, devi inchinarti 3 volte ogni volta che entri in una sala illuminata da luci rosse, dove ci sono i due corpi. E poi il museo con i regali, le onorificenze, le automobili, i vestiti e quant’altro appartenuto ai Lupo Ezechiele e al suo esecrabile figlio. Paradossale quando davanti una enorme immagine doppia dei due dittatori, denominata con molta originalità “muro del pianto”, una speaker vestita in gramaglie parte con una pantomima sul dolore per la scomparsa di sti due. Ha la voce disperata e melodrammatica, che manco nei peggiori drammoni a teatro. Chiedo a Charlie “che ha questa donna? Perchè parla così?”: E Charlie mi dice che è disperata per la morte dei due presidenti. La donna finisce il suo discorso imparato a memoria, cambia immediatamente tono di voce, ora calmo e rilassato, indica l’uscita e dice “da questa parte, prego“: Tra le tantissime foto ce n’è una in cui il Presidente tiene due pannocchie in mano come fossero due spade. E’ ridicolissima. Vedo Pavel della delegazione polacca che viene verso di me. Lo guardo e senza dire niente gli indico la foto. Lui la guarda e nei suoi occhi vedo quello sforzo immane di trattenere il riso, lo sguardo nel vuoto alla ricerca di qualcosa di tragico a cui pensare per placare quell’orgasmo emotivo. Ci riesce ed evita il disastro. Rispetto. Pare che questi Kim sappiano guadagnarsi il rispetto, la compassione e l’amore solo con la forza. Mi metto a canticchiare canzoncine a Charlie, lui mi dici che non è “polite” e gli chiedo “preferisci che canti o che vomiti?“. Poi prende il telefonino e registra la mia voce. Dice che la farà sentire alla figlioletta come ninna nanna. E magari la bambina sognerà Cabal.
Un desiderio di ribellione si impossessa di noi ospiti. Cerchiamo disperatamente di liberarci da questa piaga della prigionia in albergo. Basta Karaoke, bowling, biliardo. Non voglio andare a vedere i delfini! Scappo bestemmiando dal pulmino e corro verso una direzione quacunque ma nessuno mi ferma se non la mia coscienza. Non so dove andare, non posso andare da nessuna parte e dovunque vado, non puniranno me ma Charlie. Pianifichiamo la rivoluzione in giro per l’Albergo, bofonchiando fra di noi, poi avviene l’incredibile. L’ascensore si blocca mentre siamo dentro. Si spegne la luce. Per alcuni minuti. Panico. Poi la luce torna e riparte. Ci guardiamo in faccia e capiamo esattamente quale è l’atteggiamento che porta 25 milioni di persone ad accettare tutto ciò. Tutto quello che c’è da capire è qui. E non c’è da parlarne. Quello che avviene a Pyongyang rimane a Pyongyang, nel vero senso della frase. Arrendetevi. Eppure qesti giorni è successo qualcosa. L’ultima sera vedo Charlie che fuma un sigaro che gli hanno offerto. Forse la prima volta che vive un’esperienza del genere. Il sigaro. E qualcuno che lo spinge a pensare. Entrambe le cose puzzano, ma le gusta con piacere, immaginandosi quell’Humprey Bogart o quel Blues Brother che nemmeno sa cos’è, ma che ha sentito nominare dal suo nuovo buddy, il sottoscritto. Lo sa che io ho tutto e tanto di quello che ho, lui non può averlo. Ma non è invidioso, non desidera avere quello che è mio, non cerca d rubare i miei segreti, non sfrutta la mia energia, non mi biasima, non mi giudica, non mi calunnia, non mi imbroglia, non mi sminuisce nè mi mortifica, ma assorde tutto quello che può apprendere, nella conoscienza ma soprattutto nelle emozioni. E io faccio lo stesso con lui, immergendomi nella mente di un mio (quasi) coetaneo che vede il mondo con gli occhi di un bambino. Imparando a vivere da un eroe che vive all’ultima stazione del mondo. Tutto ciò è incredibilmente intenso e ci unisce. “L’amicizia è per sempre“, dice. Gli prometto che tornerò. E lo porterò via. Quando ci salutiamo sorride, e si commuove. Spero di felicità, perché adesso, dentro di sè, sa che può essere un uomo libero.
Gianluigi Perrone
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