Perché FolleMente non è un film di qualità

Fedele al motto del sempre rimpianto Morando Morandini, secondo il quale un critico può essere sociale ma non socievole, rispondo, dopo qualche esitazione, a un rilievo ricevuto qui su Facebook da Isabella Aguilar, che ha scritto “FolleMente” di Paolo Genovese insieme a tre suoi colleghi. La sceneggiatrice aveva scritto: «Definire Paolo un regista senza qualità mi sembra sconcertante. Esprimo un parere personale. Come lo è il suo».
Parlando del successo di sei film recenti, appunto “FolleMente” (oggi a 4 milioni di euro in quattro giorni), “Diamanti”, “Parthenope”, "Io sono la fine del mondo", "Io e te dobbiamo parlare" e “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, avevo scritto: «Parlo non a caso di ripresa commerciale, perché la qualità, a parte Sorrentino, riguarda naturalmente un'altra categoria di registi». Di qui la reazione, peraltro civile, di Aguilar, che ringrazio per aver ribadito pure stima critica nei miei confronti nonostante il mio parere su “FolleMente”.
Lo spunto mi permette di chiarire, forse.
Che cos’è la qualità al cinema? Ognuno custodisce, s’intende, una sua propria idea di qualità e tutte sono legittime. “FolleMente” è un film pensato, scritto, realizzato, montato, recitato e lanciato con cura, sulla base di un notevole budget a disposizione. Quindi una certa qualità artistico/produttiva si vede, non ci piove, e il forte gradimento del pubblico pagante conferma la forza vincente del progetto.
Solo che io ho un’altra idea di qualità, per nulla cinefila, sofisticata, erudita, sperimentale o festivaliera. Anzi, mi va benissimo l’approccio pop al tema sentimentale, che Genovese e i sceneggiatori si siano ispirati o meno o “Inside Out”. Tutto viene riciclato nell’arte, cinema specialmente, e lo stile di un autore, come teorizzava quel tale di cui non ricordo il nome, consiste nel copiare gli altri portando i propri difetti.
So che molti sorridono o ridono di gusto vedendo “FolleMente”. Plaudono alla recitazione dei dieci interpreti, alle battute a sfondo sessuale, ai tormentoni emotivi dei personaggi, eccetera. Il riconoscersi di tanti spettatori nelle pene dei due probabili amanti al loro primo incontro serale dovrebbe sancire la forza, tra espressiva e comunicativa, della commedia. E certo il copione scritto a otto mani svolge bene il compito.
Ma ovviamente un film non è solo la storia che racconta: è un blend complicato, o semplicissimo, di recitazione, voci, sguardi, ambientazioni, chiaroscuri, affondi comici o drammatici, verità e finzione. Quando sento dire in sala che «nella vita va proprio così» di solito m’insospettisco, perché certo un cineasta deve tendere a una sorta di universalità, anche quando parla di sé stesso; ma noi pubblico sappiamo, sperando di non farci caso mentre vediamo, che tutto è stato meditato, soppesato, scritto e riscritto, alimentato da digressioni, furbizie, citazioni, ironie e tormentoni, strizzatine d’occhio (Italo Calvino e Carla Lonzi in “FolleMente” per dirne due).
L’artificiosità, connaturata per dire al cinema sentenzioso di Sorrentino, anzi elemento costitutivo nel bene e nel male, è un rischio insito in ogni film o serie tv. E dunque? In “FolleMente”, a partire dalla tirata iniziale di Marco Giallini sui nomi esotici dei profilattici, tutto suona divertente e buffo, a suo modo verosimile, nonostante l’assunto sia per nulla realistico, cena a parte (e anche lì…).
In platea donne e uomini ridono, apprezzano la cosiddetta leggerezza del racconto. «Un tocco di follia, un umorismo non sgangherato.» mi ha appena scritto Franca Antelli dopo aver visto ieri il film con un’amica. A me invece questa leggerezza da tutti lodata suona solo inconsistenza, proprio nel senso della presunta riflessione sulle dinamiche della seduzione. Ecco perché trovo “FolleMente”, al quale auguro di arrivare ai 20 milioni di euro e passa, un film ben fatto ma senza qualità.
 
Michele Anselmi