la nuova lotta di classe
La dicotomia in cui ci muoviamo è tra realtà e Verità. Mai come oggi, nemmeno nei cosiddetti secoli "barbarici" (prendiamo come esempio l'Alto Medioevo) i due sono stati distanti. E occuparsi della seconda, che è ciò che ci nutre e rende umani, non è mai stato allo stesso tempo faticoso e necessario. Pena la morte interiore (già dilagata) e quella totale (dell'umanità e del pianeta, a meno di molto impegnative inversioni di rotta).
Anche il concetto di lotta di classe sembra essere ormai diventato desueto come del resto lo sembra tutto ciò che ha a che fare con il riscatto sociale e la rivendicazione dei diritti dei lavoratori. È anche per questo ma non solo che arriva provvidenziale La nuova lotta di classe (rifugiati, terrorismo e altri problemi coi vicini) di Slavoj Žižek, edito in Italia da Ponte alle grazie. Il filosofo di Lubiana, autore di diverse monografie sugli aspetti più scottanti e sottaciuti del mondo contemporaneo, ci conduce questa volta “alle porte del nostro castello di declinante benessere (dove) bussano le miserie del mondo”. Miserie che deflagrano nel cuore delle nostre città ma ancora prima nelle nostre psiche falsificate da un’apparenza non più sostenibile. In un sistema che recita il benessere che appartiene sempre più a pochi, a pochissimi, in un altrettanto finta sparizione delle ideologie e delle classi Žižek prova a risvegliare gli zombie e al contempo a nutrire i pochi resistenti rimasti.
L’Occidente, attacca subito Žižek citando il classico "La morte e il morire" di Elizabeth Kübler-Ross, sta morendo: e lo sta facendo, ci spiega spietatamente e lucidamente il filosofo, attraverso cinque stadi: quello della negazione (“semplicemente, ci rifiutiamo di accettare lo stato di fatto: non può essere vero, non può succedere a me”), quello della rabbia (“che esplode quando non posiamo più negare: come è possibile che accada proprio a me?”), il venire a patti (“La speranza di poter in qualche modo rimandare o sminuire il fatto: lasciatemi vivere fino a che i miei figli non si laurino”), la depressione (“Disinvestimento libidico. Sto per morire, inutile preoccuparmi di niente”) e infine l’accettazione (“Non ci posso far nulla: tanto vale prepararmi alla morte”).
Žižek applica questa sequenza di fatti non all’individuo ma all’intera nostra società. È un’intuizione spietata quanto geniale e come al solito sotto gli occhi di tutti. La questione è quella di volere o meno vedere. Compito del filosofo è stimolare la vista e la coscienza. È il vecchio e insostituibile “conosci te stesso” socratico che non ci dà scampo. Neanche nel periodo storico più buio dell’umanità (questo), dove la vita è stata sostituita da un film che (ripassiamo le cinque fasi di cui abbiamo accennato sopra) fino a un certo punto accettiamo consapevoli che è un film ed infine identifichiamo con la nostra vita, che non è un film, appunto, e quindi diventa nostra morte conclamata. Žižek chiude la sua bellissima e articolata riflessione sullo stato del contemporaneo con un invito: l’accettazione della fine delle utopie, la perdita di ogni inutile “speranza” (vicino in questo alla teoria della “disperazione feconda di Schopenhauer” e citando direttamente un altro grande filosofo di oggi, Giorgio Agamben: “Il pensiero è il coraggio della disperazione”). In un sistema marcio si tratta quindi di aspettare la fine e anzi, se possibile, accelerarla. Passando in rassegna le “bolle” di Podemos e Zyriza, la lotta infinita a ciò che esiste e non esiste allo stesso tempo (“il terrorismo internazionale”, imbattibile perché autorigenerantesi ovunque e senza continuità di tempo e di luogo) Žižek giunge alla sola consapevolezza possibile: che dobbiamo prendere atto di un sistema che sta morendo. Per non morire insieme a lui.
Aldo Nove remix