cos'è Roma

Dieci anni fa stavo cercando di farmi nuovi amici. Frequentavo chiunque mi stesse vagamente simpatico a pelle. Naufragavo a giocare a freccette alle tre di notte con borghesotti arricchiti dei Parioli che mi portavano poi a fare il puttan tour e mi lasciavano dormire in macchina, facevo illimitate conversazioni etiliche sulle tendenze della poesia contemporanea con fuorisede dandy, mi ritrovavo con Maurizio (che disegnava fumetti porno, insegnava basket ai ragazzini delle medie e si era inventato una rivista intitolata in omaggio a Gabriel Pontello “Ifix tchen tchen” in cui dava in allegato disegni di bambini dell’asilo che si faceva regalare dalle maestre), io e lui spersi tra le poltroncine sdrucite, a vedere in un cine d’essai Amore Tossico di Claudio Caligari, e uscendo dalla saletta imboscata e ovviamente umidissima lui commentava: “Non te rendi contro il vuoto che c’era. Ora a Roma ci sono addirittura i PIT per strada, i punti di informazione turistica! Quando siamo cresciuti c’era un vuoto che uno non riesce a immaginarsi”.
Gli anni ’80 e ’90 sono stati gli anni del vuoto, di una devastazione spirituale, ingenua e progressiva, per chi è nato e vissuto nelle periferie romane edificate dalle amministrazioni di sinistra. Palazzi con le scale che arrivano fino alla N, appartamenti di cinquantacinque metri quadri con le pareti in cartongesso, pizzerie al taglio in cui le teglie impastate di olio di colza si incurvano sui bordi, palestre in cui sui piccoli televisori sospesi a tre metri da terra venivano proiettati serialmente video di Lou Ferrigno e Arnold Schwarzenegger. Forse se c’è un personaggio emblematico della Roma di questi anni è Victor Cavallo. Attore, poeta, alcolizzato. L’incarnazione del talento che evapora, il successo sporadicissimo, l’energia dissipata senza possibilità di nobilitazione neanche da morto, neanche nelle rivisitazioni dei fan, lo spreco. E Amore tossico di Claudio Caligari è uno dei pochi film che dà l’idea di quel vuoto, il senso anticlimatico, deromanticizzato dell’anima proletaria, esausta, della Roma non più esperita dal vitalismo affamato, incantato di Pasolini. Nella scena in cui i due protagonisti si bucano all’alba sulla spiaggia di Ostia, la cinepresa si allarga, inquadrando prima i loro corpi sfranti e poi la strana scultura di ferro e pietra che sta sopra di loro. È lo stesso monumento che ricerca Moretti alla fine di Caro Diario sulle note del “Concerto a Colonia” di Keith Jarrett: quello in onore di Pasolini, posto nel luogo in cui fu ucciso. Ma mentre Moretti lo nobilita, cerca di ritrovare l’eco dell’incanto pasoliniano (civile ed estetico), ne denuncia l’incuria e l’abbandono, lo erge a simbolo di una storia italica dei vinti, lo inonda di una iper-percezione nostalgica, Caligari non ci dice neanche che è un monumento, ce lo mostra come un sasso qualunque.
Nel 1998 Caligari realizza il suo secondo e ultimo film, L’odore della notte. Anche qui è tutto senza equilibrio. Sublime e scaciata, ecco la storia della banda di ladri di appartamenti che la stampa aveva ribattezzato Arancia Meccanica. Il luogo delle azioni, la Garbatella degli anni ’80, è una specie di borgata sospesa tra la fine del proletariato e l’inizio del populismo di sinistra, dove esistono solo uomini naufraghi tra le cose e le strade. Ci si incontra per caso, nessuno ha un passato che valga la pena di stare a sentire per più di un minuto, le passioni non convincono neanche le persone che le provano. Nello stesso anno esce un altro film ancora meno pretenzioso. Giamaica di Luigi Faccini racconta la vicenda minima di cinque amici all’incirca ventenni che vivono a Cinecittà all’inizio degli anni ’90. Alla seconda scena del film uno di loro, quello nero e sorridente, muore nel rogo appiccato da ignoti in un centro sociale; per il resto del film gli altri cercano di capire chi è stato. Ma quello che fanno in effetti è vagabondare per una Roma inerte e notturna con un furgone scassato, videografato sulle fiancate con immagini rasta. La loro fragilità è abissale. Sono quattro attori non professionisti che sembrano anche esseri umani non professionisti. Hanno tutti i tempi sbagliati e le reazioni emotive scomposte. C’è una scena verso la fine in cui fanno una partita a calcio senza palla. Se uno pensa alla scena della partita a tennis senza pallina di Blow up, i quattro appaiono ridicoli, sciatti, inestetici. Uno di loro a un certo punto si blocca perché intravede passare in macchina sua madre con l’amante. Le si getta incontro. Si strattonano. Poi lui si butta a terra e piange sull’erbetta del campo da calcio. Ed è un momento che va aldilà del patetico e del tragico, è qualcosa di così assolutamente nudo che fa quasi impressione che qualcuno abbia ripreso la scena.
Il film è ispirato alla storia di Auro Bruni – era lui il ragazzo diciannovenne di origine maghrebina il cui sogno era andare in Giamaica –, morto carbonizzato una sera di maggio del 1991 nel centro sociale “Corto Circuito” a Cinecittà. Era rimasto da solo all’interno del centro mentre gli altri che occupavano erano usciti di notte a comprare i cornetti. La magistratura indagherà e non risolverà nulla. Qualcuno rivendicherà l’azione: gruppuscoli fascisti che sono l’onda lunga e sbriciolata delle formazioni degli anni ’70 e ’80. Esistono tre, quattro centri sociali a Roma al tempo: il Forte Prenestino, il Break Out, l’Hai visto Quinto?. La scena politica è ridotta a frammenti. L’indignazione per Gladio, i movimenti di protesta universitari, il revanscismo civile per i grandi misteri insoluti d’Italia: il 1991 è anche l’anno del Muro di gomma, di Santoro in televisione. Sono gli ultimi scampoli temporali della Prima Repubblica. I ragazzi portano i jeans a zompafosso, sotto calzini da ginnastica bianchi e Timberland. L’idolo dell’estate precedente è stato un calciatore siciliano cafone e socialmente impresentabile che alla Juventus prendevano per il culo perché finiva le frasi con quindi, e negli stadi veniva insultato perché dicevano che rubava le gomme.
Dal “Corto Circuito” nel tempo è nato il movimento per il diritto alla casa Action. Quelli di Action occupano gli stabili che a Roma sono sfitti, case degli enti, delle banche; praticando forme di lotta che sembrano archeologia in una città governata in modo dolciastro dalla perfetta intesa tra amministrazione comunale e costruttori. Sono rozzi, maldestri, molesti quelli di Action, parlano ad alta voce, fanno discorsi senza consecutio né cogenza logica, hanno la pelle butterata, i codini, la tuta per sciare sotto i pantaloni, bestemmiano appena si può, hanno i cappotti coi bottoni che stanno per sfilarsi, le giacche con le maniche più corte e le macchie appuntite di vernice, manifestano paranoie infantili sulle dinamiche di potere, si fanno le canne anche volitivamente sotto la pioggia, tirano fuori qualche parola latina ogni tanto, hanno gli occhi bovini, si abbracciano in modo smodato, si chiamano frate’, hanno la cinta con la fibbia allentata, i denti più acuminati con le otturazioni di piombo, si irrigidiscono per un nonnulla, hanno paura, sfottono le guardie, mangiano grasso, intingono il pane nel piatto di quello che gli sta accanto, sono una delle pochissime forze politiche a Roma.

Christian Raimo